Note a margine di alcune pagine di Matteo Lancini, L’età tradita (Raffaele Cortina) a cura di Agostino Frigerio, membro del team di Sfide – La scuola di tutti.
Il tema dell’espulsione dell’altro, annunciato ormai da alcuni anni da un libretto del filosofo coreano Byun Chun Han, ha trovato una sua declinazione stringente in quello che la giornalista Annalisa Cuzzocrea ha ripreso in un suo recente scritto, “Che fine hanno fatto i bambini”, rivelando un fenomeno tanto importante quanto celato: la scomparsa dei minori, degli adolescenti dalle cronache soprattutto del primo tempo della pandemia.
In genere nascondiamo quel che ci infastidisce, quel che ci inquieta, quel che mentre ci interroga amplia le nostre insicurezze, anziché contenerle e dare loro una via di riconoscimento.
Eppure, nascondere non equivale a risolvere, tutt’altro. Non parliamo di quel che temiamo, e forse quel che temiamo è proprio di non essere in grado di comprendere cosa succede agli adolescenti, e quindi in fondo cosa sta succedendo a noi.
Adulti in difficoltà e troppo impegnati a gestire le proprie fragilità non se la sentono di farsi carico di bambini e ragazzi per i quali si preferisce pensare in termini di distanza, o meglio di difesa da proprie ansie e senso di inadeguatezza. E così, accanto a insegnanti che si sono interrogati su cosa fare in una stagione tanto inquietante per la vita di tutti, abbiamo assistito a condotte puramente replicative di modi di agire “negazionisti”, quasi si potesse semplicemente recuperare il consueto costume o addirittura enfatizzare forme di controllo sui comportamenti dei ragazzi, fino a farli bendare durante le interrogazioni a distanza.
Insomma, tornare a scuola non basta, non basterà: proprio mentre ora si auspica un recupero della relazione in presenza, sarebbe curioso che il tutto si riducesse ad un ritorno alla pura, fisica consistenza nello stesso spazio-aula dei ragazzi, a meno che il rientro in classe non finisca con il nascondere semplicemente un bisogno, da parte dell’adulto, di tenere sotto controllo i ragazzi.
Una domanda che ci si pone allora riguarda proprio la concezione pedagogica dello spazio educativo: sarebbe occasione gravemente sprecata se il rientro in classe significasse semplicemente una riassegnazione dei loro posti nei banchi. Quasi che i mesi trascorsi a distanza, davanti ad uno schermo, non abbiano comportato una rimodulazione della relazione con l’altro davanti ma distante, faccia a faccia ma intangibile, lontano. Una prossimità distante, forse in una continua ricerca di raggiungere la prossimità dentro l’incolmabile distanza.
Ma nella dad quel che è avvenuto è stato immediatamente mediato dai contenuti e dai modi di fare didattica. Sono soprattutto le pratiche didattiche a disegnare la relazione a scuola.
La dad è stata attivata come alternativa alla totale assenza da scuola, oppure come equivalente ad una presenza però inerte, una presenza immobile, di una immobilita oltremodo accentuata dall’obbligo di trascorrere anche gli intermezzi (intervalli, cambi d’ora) al proprio posto.
A questi fenomeni diciamo così diffusi ma microscopici, fa poi da sfondo il più generale abbandono, parziale o totale, dell’esperienza scolastica, per molti con costi altissimi in termini scolastici, per altri con esiti di definitiva esclusione dall’orizzonte formativo.
Portatore di messaggi significativi sembra essere stato il rientro in classe dal lockdown. In alcuni casi inteso come opportunità di riallacciare relazioni umane ed educative in forme rinnovate di presenza, occorre riconoscere che si è trattato per lo più di una occasione di riorganizzazione, di irrigidimento dell’agenda didattica: subito un tempo serrato di interrogazioni, compiti, verifiche, voti. Le mani, anziché aprirsi, si sono serrate a trattenere quel che pare contare davvero. Un condiviso segnale del fare scuola? Oppure strumenti per accogliere e valorizzare i già adatti, respingendo gli inadatti e lasciando in un disagevole limbo i quasi adatti? Si pensa solo alle verifiche in presenza, ha confessato una Dirigente Scolastica in un’intervista, quasi si trattasse di completare una sempre lacunosa raccolta punti. Siamo fiduciosi: è successo, ma non sempre, non dappertutto. Forse non è capitato dove la scuola aveva elaborato una “cultura dell’educazione” aperta, non timorosa, rivolta ai ragazzi.
Occorre però provare a considerare questi aspetti non solo dal punto di vista degli studenti, ma anche da quello degli insegnanti. La rincorsa ai punti, alla duplicazione delle occasioni di rapidi e ripetuti controlli, cosa ha da dire del vissuto professionale dei docenti? Azzardiamo qualche congettura, senza pretesa alcuna. Viene da pensare ad una insicurezza forte riguardo l’efficacia dei propri interventi, alla ricerca, nelle prove ripetutamente somministrate, di sempre nuove, e forse anche più improbabili, conferme di un valore che l’insegnamento non trova riconosciuto per altre vie. Viene da pensare ad una indifesa esposizione che si vive nei confronti delle famiglie, giudici sovente inappellabili e parziali ma dal potere destabilizzante per l’immagine di se del singolo docente e della scuola più in generale. Vien da pensare anche ad uno scivolamento verso una riconfigurazione dell’azione educativa propria degli insegnanti in termini didattico-prestazionali, in cui la dimensione spaziale e temporale della relazione che genera conoscenza e convivenza si rimpicciolisce in funzione della performance. Si ridimensiona il tempo del conversare, del discutere, del “chinarsi” sui ragazzi per ascoltare, osservare, dialogare, replicare, accogliere, comprendere, correggere, rilanciare la sfida del sapere insieme al riconoscimento ed alla stima verso lo studente. Si riduce il tempo del “fare insieme”, facendo del gruppo studenti una comunità che opera in condivisione: apprendere insieme, insegnare insieme. I tre atteggiamenti di base – accogliere, stimare, sfidare – vanno a dileguarsi a vantaggio di preoccupazioni eminentemente “pubbliche”: le prestazioni inoppugnabili degli studenti ed i giudizi inappellabili della scuola.
Stiamo cercando un centro di gravità che consenta di educare lontani dalle ridotte intimistiche di una scuola psicologizzata, ma pure da una enfasi prestazionale e competitiva che finisce per isolare ed espellere gli altri, i non (e i quasi) adatti, in nome di un principio produttivistico – non-devo-essere-da-meno- che la scuola avrebbe invece il compito di riformulare secondo le due dimensioni essenziali di ogni curricolo scolastico e di ogni crescita umana: il conoscere ed il convivere.