Riflessione di Agostino Frigerio di Sfide – La scuola di tutti

Cosa ci insegna la pandemia? Domanda retorica o provocatoria, un senso l’interrogativo ce l’ha. Provo a rispondere, in maniera opinabile, riguardo la scuola.

  1. La scuola, nel suo compito di insegnamento, ora ricorre alla didattica a distanza – che è necessaria, non essendoci alternative, e che può offrire occasioni importanti per rinnovare modi di fare e di pensare.  Ne emergono virtù e vizi, diciamo così, del fare scuola. La prospettiva, ancora un po’ confusa, prevederebbe poi una continuazione di momenti di didattica a distanza e di momenti in presenza, oltre a una riorganizzazione delle classi e del tempo scuola. Insomma, verrebbero a consolidarsi modifiche delle tradizionali routines scolastiche con l’aggiunta di un distanziamento fisico che rischia di divenire sociale: ad esempio non vedremo più bimbi o ragazzi che entrano od escono vocianti, disordinatamente, ma gomito a gomito, viso a viso, con quegli scambi verbali che rimandano a qualcosa che è accaduto ieri in classe o a qualcosa che si teme capiterà tra breve, quando l’insegnante comincerà a interrogare o a fare lezione. Nessuna gioia condivisibile per un bel voto, e la delusione per la nota da tenere dentro. Non un timido sorriso, né una arrabbiata parolaccia da spartire con i compagni.

Cambiano delle cose, evidentemente. Basta pensare allo spazio. Riporto un intervento del filosofo Carlo Sini sul tema: la classe, e in genere un gruppo che apprende, è “un gruppo di esseri umani che si trova insieme ad abitare uno spazio comune, non uno spazio infinito ma uno spazio a portata di mano; uno spazio destinato allo scambio di parole, gesti, immagini, ecc., in cui lo scambio è tutt’uno con lo stare insieme, con la relazione interumana; uno spazio in cui tutto ciò che avviene, lì a portata di mano, è da regolamentare, da adattare al meglio”. E tutti i giorni da richiamare, anche solo con uno sguardo fulmineo e severo, o un sorriso accattivante che accompagna un richiamo o un incoraggiamento. In classe il corpo è protagonista non assoluto ma primario: prova a muoverti durante la spiegazione di matematica! Spazio di conoscenza e di relazione, spazio di formazione. Cosa cambia ora? Credo che non lo sappiamo bene ancora, ma certo viene meno quel “a portata di mano” in base a cui siamo soliti ragionare.

Certo la distanza obbliga a diverse routines: quando spegni il collegamento dopo quattro o cinque ore di lezione, ti ritrovi non il compagno di classe con cui scambiare due parole, ma lo schermo nero davanti agli occhi.

Qualche domanda ce la siamo già fatta più volte, alcune cose già sono state dette.

Sembra quasi che questo virus abbia sbarrato le nostre due principali direzioni di marcia – insegnare insieme, apprendere insieme – per rimettere tutto in discussione.

Che ne sarà della socialità – e se guardo all’infanzia, alla primaria e alla secondaria di I° grado la penso molto fisica, molto vissuta nella prossimità -, quella socialità fatta di comunicazione extraverbale che tanto conta nella relazione? Che ne sarà della inclusione? Leggo che il 20% dei ragazzi rischia l’esclusione per problemi tecnologici. Dei bambini in difficoltà, dei ragazzi disabili? E del lavoro di gruppo? La scuola ora più che mai può, deve rappresentare un fattore di stabilizzazione delle relazioni e delle identità, che il lungo isolamento ha certamente messo alla prova. Infine, come faremo a condurre verso un apprendimento cooperativo digitale gli insegnanti che non hanno mai sperimentato la cooperazione in classe?

  1. Ma come faremo a settembre? Alcune ipotesi parlano di turnazioni, alternanza di presenza e distanza, riorganizzazione delle classi. Mi chiedo – pur essendo consapevole che non pare esistano alternative praticabili – se questo non condurrà ad un impoverimento della formazione, cognitiva e sociale. Troveremo modo di guadagnarci?

Innanzitutto mi chiedo – scusate l’insistenza un po’ petulante – se queste preoccupazioni sono generali e, nel caso, se riusciamo a farle oggetto di riflessione condivisa e di proposte comuni. Mi pare un compito politico importante. 

Poi, guardando la scuola da dentro, mi chiedo se possiamo trovare orientamenti per rendere il distanziamento una opportunità di socialità, di apprendimento collaborativo, di sviluppo di un apprendimento che richiede essenzialmente la partecipazione con altri. Evitando il riaffermarsi di un insegnamento frontale e trasmissivo. Insomma, forse dovremmo guardare – proprio per non perdere la relazione e la socialità – soprattutto a contenuti e modalità di lavoro in modo che il cognitivo, proprio per crescere, richieda una forte cooperazione, richieda un necessario e non artificioso rapporto con gli altri.

Sempre da dentro. Grave errore a mio avviso sarebbe oggi cercare di ripetere la scuola di prima a prescindere da quello che è successo. E cosi avviene ogni volta che si pensa di mantenere i contenuti di prima, comprimendoli nelle nuove forme (insegnamento a distanza, frequenza a giorni e gruppi alterni, e così via).

Credo che occorra rifocalizzare le finalità e poi riscrivere il curricolo, sapendo che il curricolo può venire insegnato, e appreso, secondo modalità differenziate. Parti del curricolo possono venire insegnate in presenza, parte a distanza; parte in forme ludiche, operative, mimiche, che se non è in grado la scuola di attuare, si possono realizzare aprendo la scuola a diverse agenzie culturali, e ad associazioni che fanno del sociale la loro missione.  

Insomma, se cambia la forma – il medium, il contenitore – anche il contenuto – il messaggio – cambia.

La scuola può rileggere il curricolo, assegnando alla distanza temi, contenuti, progetti che mentre curano la socialità dei ragazzi offrono loro di diventare protagonisti di un progetto, e facitori di un compito comune?

L’Europa – faccio un esempio – può diventare un tema/progetto della distanza? A questo allora aggancio la scrittura, la letteratura, le lingue, l’arte, la matematica e l’economia, la geografia e la storia, certo non secondo scansioni e tempi dei libri di testo e dei programmi canonici, ma rimettendo in gioco una linea evolutiva dell’insegnamento disciplinare, cercando collegamenti tra le discipline che lancio o riprendo in classe.

Per ricordare una vecchia canzone di Guccini, ha senso dire cose vecchie con il vestito nuovo? Vestito nuovo, vita nuova

  1. Guardiamo la scuola da fuori, adesso.

La scuola può farcela da sola? Forse no. La scuola ha insegnanti bravissimi, competenti e con visione educativa formidabile per la tenuta della società. Ma anche insegnanti che ce la fanno a fatica. Ma al di là delle personali virtù, per la scuola, per il suo buon lavoro, occorre risvegliare e raccogliere risorse extrascolastiche, “il più ampio contesto sociale”. E perché la ricostruzione di un tessuto sociale che era già frantumato e che questa pandemia pare non essere in grado di rigenerare, ma che abbiamo il dovere di ricostruire, perché questa grande operazione sociale e politica non può mettere inizialmente al centro la scuola, l’educazione, le nuove generazioni?

La scuola, consapevole del suo compito più grande di lei, riconoscendo umilmente i propri limiti, deve suscitare e raccogliere risorse ed energie dentro e fuori di lei perché la sua misura è il compito che la guida, non il limite che porta.

E chi può collaborare – allora – se non la “comunità” di cui la scuola è parte? Nessuna “comunità” nel vecchio senso che davano al termine i fautori delle scuole di appartenenza (forse qualcuno ricorderà antiche polemiche); no, dico la comunità sociale con tutte le sue varianti e ricchezze, la comunità civile di cui l’ente locale e le sue diramazioni ne è parte, in un quadro istituzionale ampio e generale, ma concreto. Quell’ambito locale di partecipazione a qualcosa di comune che vale per tutti: sostanza della democrazia, di una democrazia solidale, perché solo questa solidarietà la rende solida. Così gli insegnanti possono ben essere accompagnati da tirocinanti (che per esempio dedicano un intero anno di formazione a una scuola), volontari di associazioni che si occupano del tempo libero, degli orti scolastici, di seguire i compiti, e così via. Finora ciascuno spesso a casa propria, a distanza dagli altri. I doposcuola che non riescono a divenire interlocutori della scuola, la scuola che li ignora, fingendo di non sapere che sono frequentati da molti dei suoi ragazzi. Ora gli spazi e le competenze vanno messi a disposizione, non gelosamente trattenuti: serve una collaborazione locale che sostenga un percorso di cui la scuola ha la regia ma che anche altri seguono, cui molti cooperano. Altrimenti la scuola non ce la fa: giorni a scuola, giorni a distanza, nuovi orari e tempi per l’insegnamento. Chi ce la fa, ce la fa, ma chi arranca, si perde.

Eppure, anche nel cambiamento dei modi si potrebbe trovare una forma di coinvolgimento dei più deboli, cui forse il format scolastico precedente non andava un granché bene.  Sì, anche questo è possibile: non solo ragazzi da recuperare, ma reinventare una relazione con loro. Una possibile rinascita?

Quindi è possibile nutrire speranza, certo, altro che!, ricordando un pensiero di Vaclav Havel: “La speranza non ha niente a che vedere con l’ottimismo. Non è la convinzione che qualcosa andrà bene, ma la certezza che qualcosa ha un senso, indipendentemente da come finirà”.