Ci chiediamo da tempo se il distanziamento, questa forma necessaria di allontanamento, di lontananza fisica dall’altro, alla fine modificherà la relazione con gli altri, magari dimensionandola su altre misure, e se in particolare, smentendo il più classico dei luoghi scolastici – la classe come comunità di relazioni a portata di mano – finirà per vanificare, sul piano educativo, l’imparare e l’insegnare insieme, quella forma di agire collaborativo che riesce a tenere solidaristicamente uniti il conoscere e il convivere. Se il virus ci lascerà più soli, più indifesi e infine anche un po’ meno interessati a conoscere e comprendere.
Conviene chiederci anche, però, se tutto il sistema di riduzione dei tempi e delle distanze cui abbiamo assistito da un certo numero di anni, e da cui abbiamo pur tratto qualche giovamento, ci abbia reso più prossimi tra noi, più sensibili gli uni agli altri, più intimamente solidali. Forse l’estrema riduzione di ogni distanza e di ogni tempo ci ha soprattutto omologato, mantenuti distinti purché paragonabili agli altri, per diventare infine comparabili in base ad un criterio – quello del non essere da meno – che ci ha scavato profondamente nei principi e orientato nei comportamenti, finendo per distanziarci comunque. Insomma, la vicinanza di tutto e tutti a tutto e tutti ha finito con l’aumentare il vociare comunicativo ma forse ha ridotto un po’ gli spazi della relazione autentica e solidale. La società globalizzata ci ha resi più vicini, certo, ma non per questo più prossimi.
Ora, con questo virus che dilaga, che sarà dei nostri rapporti personali, sociali, educativi?
Prendo a prestito un’immagine che mi pare efficace: il virus lavora come una talpa, la quale ha scavato e scava nel sottosuolo della nostra socialità, nel profondo di noi stessi. Anche il virus – che ha una vita immateriale produttrice di fantasmi con cui dobbiamo pure fare i conti – scava, accumula, sparge nelle nostre cantine quel che non riesce a stipare nei piani alti. Cosa avviene nel profondo di noi stessi? Se la vicinanza, e addirittura talvolta un eccesso di vicinanza, ha sovente generato distanza e solitudine, questo distanziamento riuscirà a generare solidarietà e comunanza? Forse si, se daremo parola a quella terra che il virus, come una talpa, ci scava dentro.
Diciamo allora che la scuola può forse tentare di seguire questa immaterialità parallela del virus e provare ad avvicinare quei ragazzi che le misure di salute e sicurezza tengono necessariamente distanti. Accostandoli nella condivisione della parola che insegue sentimenti e conoscenze, realizzando così una comunità di ascolto, di esperienza e di discorso.
Come? Dando espressione, con la massima discrezione e con attenzione anche ai silenzi, a quei rumori che provengono dal sottosuolo di ciascuno: stati d’animo, sentimenti, paure ed attese, pensieri irriflessi o considerazioni più meditate possono trovare a scuola un luogo di manifestazione, di ascolto, di rielaborazione. Magari a partire proprio da quanto gli insegnanti hanno da dire di sé e del proprio modo di vivere questa stagione. Certo, la cosa è già avvenuta o sta avvenendo. Occorre continuare a farlo, non solo per aiutarci a sostenere le nostre incertezze, ma anche per ricreare legami, relazioni, comunità. Questo è ciò che potremmo chiamare “la veduta”, il modo personale di approcciarci alla pandemia e al clima emotivo e sociale che suscita. La classe e le sue “vedute”: un guadagno per tutti riuscire a dare loro voce.
E poi c’è la conoscenza. Non si tratta solo di aiutare a far emergere, contenere, ordinare (sarà mai possibile?) i pensieri nascosti; la scuola può accompagnare i fantasmi personali a fare i conti con la conoscenza del virus e della pandemia: con quanto la ricerca scientifica sta mettendo in luce, magari in una prospettiva evoluzionistica, considerando quindi – in una visione ecologica – la questione della salute come bene planetario e condiviso, la vita tout court come bene indivisibile, lo spazio come risorsa a tutti destinata.
Forse condividere la cura, l’ascolto e la conoscenza – la ricerca e la scoperta come modi di relazionarsi alle proprie debolezze e al mondo nel suo insieme – può aiutare a renderci tutti più prossimi e solidali in un contesto di necessario, fisico distanziamento. Si è più vicini in una comunanza di compiti e di intenti, forse, che in una contiguità fisica un po’ taciturna e un po’ indifferente.
Agostino Frigerio